Un politico leghista, il senatore Manfredi Potenti, avrebbe voluto vietare per legge, negli atti pubblici, i nomi al femminile di alcune professioni.
Secondo la sua proposta, negli atti pubblici le parole come 'sindaca', 'questora', avvocatessa' e 'rettrice' dovrebbero essere aboliti e a chi non si adegua dovrebbe essere inflitta una sanzione fino a cinque mila euro.
In realtà sul ddl si è fatto marcia indietro, e la Lega ha precisato che la proposta di legge del senatore Potenti era "un’iniziativa del tutto personale".
Ma non è certo la prima volta che si dibatte in Italia dell'inclusività della lingua italiana (o della mancanza della stessa).
Ne abbiamo parlato con una sociolinguista e divulgatrice italiana che da tempo si occupa della questione, Vera Gheno, autrice di vari libri, tra cui il recente 'Grammamanti. Immaginare futuri con le parole', attualmente in visita a Melbourne.
"Io parlo piuttosto di linguaggio ampio", spiega Gheno, "e il linguaggio ampio è un linguaggio di apertura verso quella che in inglese viene chiamata diversity, che in italiano più che diversità è la varietà, la naturale varietà con la quale occorrono e si manifestano gli esseri umani".
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Vera Gheno negli studi di SBS a Melbourne. Credit: SBS Italian -Magica Fossati
"Non è che se iniziamo a dire ministra, assessora, il sessismo scompare o le discriminazioni sul professionali sul posto di lavoro se ne vanno".
"Però è vero che i femminili professionali sono una piccola ginnastica per il nostro cervello, per abituarlo alla normale alternanza dei generi, anche nei ruoli che normalmente siamo abituati o abituate a percepire sempre al maschile, ma non per un motivo strano: semplicemente perché magari in quel ruolo non abbiamo mai incontrato una donna prima di anni recenti".